NOTIZIARIO "LA PAROLA" A NOI

Cari Colleghi,
come già vi avevamo preannunciato, sospendiamo temporaneamente l’invio del periodico “La parola a Noi”, in attesa della revisione dei costi di spedizione.
Riteniamo, comunque, doveroso mantenere con voi un rapporto epistolare per aggiornarvi sulle novità che riguardano la vita del Collegio, la sanità ionica, le cui ripercussioni si riverberano sul nostro lavoro.
Ecco che, dopo tanto pensare, abbiamo optato per un foglio notizie all’insegna del rispetto e della necessaria interazione Collegio-iscritti. Troverete informazioni flash che potrete approfondire sul sito, cliccando www ipasvitaranto.it, entrando, poi, nelle news.
Quello di cui voglio rendervi partecipi è la notizia della cerimonia solenne di consegna da parte del sindaco di Taranto, dott. Ippazio Stefàno, di una targa al Collegio in rappresentanza di tutti gli infermieri, nell’occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere (12 Maggio). Altrettanto importante per noi è l’avvio del Servizio Infermieristico nella Asl Ta, unica in Puglia, Servizio che dovrà rappresentare le istanze e la crescita degli Infermieri, in ossequio alle motivazioni di base dello stesso: miglioramento della qualità delle prestazioni da erogare. Per questo ai sei dirigenti va il nostro augurio: “ad maiora”.
Naturalmente stiamo mettendo a punto il calendario dei corsi di aggiornamento, oltre all’attivazione del “Master infermieristico per le funzioni di Coordinamento” anche per l’anno 2010-2011, per il quale potrete inviarci una pre-iscrizione.
In fase di attuazione il trasferimento del Collegio dalla sede di via Mazzini alla nuova in via Salinella, 16, che sarà completato a breve, di cui sarà, comunque, data comunicazione tempestiva.
Il Collegio continuerà a lavorare per i suoi iscritti, a completare il calendario scientifico, in modo da essere pronto a riprendere l’attività didattico-formativa già all’indomani del trasloco.

Benedetta Mattiacci
Presidente del Collegio IPASVI di Taranto


Bellezza e Salute

Il Centro di Riabilitazione e Fisioterapia della “Fondazione Beato Nunzio Sulprizio” comunica che agli Infermieri, iscritti al Collegio IPASVI di Taranto, viene praticato uno sconto dal 10 al 20% sulle prestazioni erogate tra cui: Terapia ad onde d’urto; Hydrofor; Tecarterapia; Hylterapia; Elettroterapia; Massoterapia; Ginnastica Posturale; Corsi di Back School; Pilates; Linfodrenaggio; ecc.
Per informazioni:  centralino 099/7792891- chiedere della Segreteria.

Informazione scientifica

Per l’anno 2010- 2011 sarà attivato il Master universitario di 1° livello in “Management Infermieristico per le Funzioni di Coordinamento”, durata: 1500 ore, distribuite in 6 moduli crediti universitari: 60, riservato ad: Infermieri, Infermieri pediatrici, Ostetriche (quest’anno al Master potranno partecipare anche infermieri che non hanno ancora 2 anni di servizio).
Al termine di ciascun modulo verranno sostenuti gli esami dei corsi integrativi previsti e la valutazione del tirocinio. Con l’attestato finale verrà rilasciato dall’Università degli studi “Tor Vergata” il “Diploma di Master di 1° livello in Management infermieristico per le funzioni di coordinamento”.

Valutazione del dolore - Le cure palliative

Valutazione del dolore - Le cure palliative
Di Giovanni Argese - Vice presidente Collegio IPASVI -TA

Il dolore, nemico inesorabile da eliminare perché ci vuole distruggere oppure amico franco, fino alla brutalità, che ci usa violenza per salvarci?

Il dolore è sempre stato uno dei fondamentali problemi dell’uomo, fin dalla sua origine e motivo di innumerevoli sforzi per comprenderlo e controllarlo. Nella azione professionale sanitaria non sempre è possibile guarire, ma curare sì. Nel “momento più difficile” della vita dell’uomo, quando resta solo la possibilità di comprendere e controllare il “nemico inesorabile”, diventa eticamente giusto stendere su di esso un “mantello” protettivo, la cura palliativa.

Diversi autori danno una definizione chiarificatrice di essa:
  1. le cure palliative possono essere definite come "il trattamento del paziente affetto da patologie evolutive ed irreversibili, attraverso il controllo dei suoi sintomi e delle alterazioni psicofisiche, più della patologia che ne è la causa". Lo scopo principale delle cure palliative è quello di migliorare anzitutto la qualità di vita piuttosto che la sopravvivenza, assicurando ai pazienti e alle loro famiglie un’assistenza continua e globale (Ventafridda, 1990);
  2. la peculiarità della medicina palliativa è il nuovo approccio culturale al problema della morte, considerata non più come l’antagonista da combattere ma accettata a priori come evento inevitabile. Da questa premessa teorica nasce una pratica clinica che pone al centro dell’attenzione non più la malattia, ma il malato nella sua globalità (Corli, 1988);
  3. la consapevolezza della morte induce un’attenzione più acuta alla qualità della vita ed alla sofferenza di chi sta per morire. La medicina delle cure palliative è, e rimane, un servizio alla salute. Non, dunque, una medicina per morente e per aiutare a morire, ma una medicina per l’uomo, che rimane un vivente fino alla morte" (Spinsanti, 1988).
L’indiscutibile progresso ottenuto dalla medicina, sia in campo diagnostico che terapeutico ha condotto ad una serie di conquiste un tempo considerate irrealizzabili, ma questo estremo tecnicismo mal si adatta alla cura del paziente terminale, egli necessita di “altro”. Alla base di questa filosofia resta sempre il rispetto dell’essere umano sofferente, l’attenzione al dettaglio, a tutto quello che si può e si deve fare quando "non c’è più niente da fare". Ciò significa interessarsi alla vita del malato, anche se dovesse essere brevissima, privilegiandone gli aspetti qualitativi e arricchendo ogni istante di significati e di senso, nonché mettere in campo la capacità di ascoltare, di “dare presenza”, di restaurare i rapporti umani, entrando in relazione emotiva con pazienti e familiari. Infine, una corretta "filosofia" nell’approccio palliativo deve comprendere la capacità di saper riconoscere i propri limiti come curanti e terapisti, recuperando il senso profondo della medicina come scienza ed arte per la salute psicofisica dell’essere umano.

Non ci si può improvvisare esperti in questo settore. Queste nozioni richiedono un nuovo tipo di formazione che sia accademica (Master specifici) e post-universitaria (formazione continua, ricerca, etc.). La preparazione dei professionisti della salute è più che mai necessaria. Non si intende medicalizzare la morte, ma offrire un aspetto umano a situazioni disumane finora trascurate e viste con indifferenza. Parlare invece di “impatto della malattia e/o dei trattamenti” o di “controllo dei sintomi”, significa richiamarsi ad un modo diverso di intendere la realtà. La malattia non è soltanto il fenomeno morboso in quanto tale, ma, anche e soprattutto, l’esperienza che di questo fenomeno ha il soggetto ed in particolare i vissuti di sofferenza, dolore, stanchezza, paura, nonché gli aspetti psicologici e relazionali. Da queste considerazioni è nata l’esigenza di proporre un’assistenza peculiare per i malati di cancro in fase avanzata, che presentino dolori o altri sintomi gravi, fisici e psicologici. Le cure palliative sono rivolte soprattutto ai pazienti colpiti da cancro. Dai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si comprendono rapidamente le dimensioni del problema: vengono diagnosticati ogni anno 5.9 milioni di nuovi casi di cancro di cui 4.3 milioni giungono a morte. Il rischio di ammalarsi di tumore è in costante crescita nella maggior parte dei Paesi, sia per l’aumento della durata media della vita sia per l’incremento dei fattori di rischio (De Conno, Martini e Zecca 1996). Per arrivare ad un intervento sanitario-assistenziale efficace, continuativo e riproducibile, le cure palliative in Italia dovevano cercare una strada nell’ambito della medicina ufficiale e scientifica, prendendo in considerazione esperienze già consolidate. Il costante punto di riferimento di tutte le iniziative nei confronti dei malati inguaribili è stato il movimento "Hospice" anglosassone. La prima iniziativa, strutturata per offrire una risposta pratica e scientifica ai problemi del malato morente, per istituire cioè un sistema di cure palliative, è stato un fatto piuttosto recente, che si collegava al movimento Hospice, nato negli anni Sessanta grazie a Cecily Saunders, fondatrice del St. Christopher’s Hospice di Londra. L’Hospice forniva supporto ed assistenza a chi si trovava nella fase terminale di una malattia inguaribile, per consentirgli di vivere l’esistenza residua in pienezza e nel modo più confortevole possibile. Da un punto di vista organizzativo l’Hospice è tuttora una struttura intraospedaliera o isolata nel territorio, che riproduce le caratteristiche della casa e dell’ospedale allo stesso tempo. E’ un luogo dove è possibile trattare i problemi dell’ammalato con ogni mezzo idoneo, medico, assistenziale, psicologico, spirituale, al fine di migliorarne la qualità della vita. Favorisce una personalizzazione delle cure ed una presenza continua di familiari e conoscenti vicini al malato.

In Italia, soprattutto al Sud, la carenza di strutture sanitarie specializzate tipo Hospice e di reparti di cure palliative fa sì che la casa del malato diventi il luogo di cura più idoneo. Certamente esistono dei casi in cui l’ospedalizzazione rappresenta la scelta migliore, sia perché adeguata ad affrontare le necessità terapeutiche del malato, sia perchè permette al paziente o ai suoi parenti di trovare il necessario sostegno negli operatori sanitari. Ma per molti familiari la scelta del domicilio può anche rappresentare la volontà di vivere in prima persona una situazione particolarmente profonda e carica di significati, anche affettivi, senza delegarla all’istituzione sanitaria. La tradizionale prassi del ricovero ospedaliero non fornisce, in genere, particolari supporti, salvo alleviare il peso assistenziale che grava sui parenti. L’assistenza domiciliare non rappresenta la soluzione più idonea se non ci si fa carico anche degli aspetti più squisitamente psicologici e relazionali del rapporto assistenziale. Tale soluzione non rappresenta una panacea, infatti, se realizzata in modo improprio; anzi produce essa stessa ulteriore sofferenza, in quanto elimina la presenza rassicurante e le risorse dell’ospedale, senza fornire un supporto ugualmente autorevole e valido. Gli studi di Parkes (1980, 1985) hanno messo in evidenza come l’assistenza domiciliare possa risultare un elemento di disagio, quando non condotta da personale competente nel controllo del dolore e degli altri sintomi. Nel proporre una strada alternativa all’ospedalizzazione i risultati devono essere almeno equivalenti, se non migliori. A questo proposito non esistono molti dati disponibili. Parkes (1980) segnala come il controllo del dolore a casa fosse ancora insoddisfacente per un campione di pazienti seguiti nel periodo 1977-79, sebbene i risultati fossero migliorati rispetto ad un lavoro precedente. La preferenza per una somministrazione orale del medicinale prescritto, la ricerca di terapie personalizzate e ad orario fisso, vanno nella direzione di permettere un trattamento anche domiciliare con la maggior parte dei pazienti. Uno studio di Ventafridda et al. (1989) ha cercato di confrontare le due forme di assistenza su parametri clinici, psicosociali ed economici. I risultati ottenuti su due campioni di 30 pazienti ciascuno (un gruppo seguito a casa, l’altro seguito in ospedale) non hanno mostrato alcuna differenza statisticamente significativa per quanto riguarda il controllo del dolore, il numero dei sintomi, il numero di ore di sonno. Secondo Spitzer (1981), invece, il gruppo domiciliare, dopo due settimane di assistenza, ha evidenziato una migliore qualità di vita. Assistere a domicilio presuppone, innanzitutto, il rispetto delle preferenze del malato nella decisione tra casa e ospedale, spesso assai più complesse e personali rispetto a valutazioni esterne (Hinton, 1979). In una indagine effettuata in Italia, 139 pazienti in fase terminale su 165 hanno dichiarato di preferire l’assistenza a casa. Poiché i bisogni del malato sono di natura diversa, è corretto affrontarli utilizzando specifiche competenze e specifici strumenti; poiché tali bisogni non sono di esclusiva competenza medica, l’équipe deve comprendere varie figure professionali e non. Nel servizio si possono distinguere due gruppi, che lavorano a contatto, ma che si propongono in due momenti diversi d’azione. Il primo è composto da quattro figure basilari nell’assistenza domiciliare e costituisce l’unità mobile di intervento, l’estensione extramurale del servizio di cure palliative:
  • familiare leader;
  • medico domiciliare;
  • infermiere domiciliare;
  • volontario.
Il secondo gruppo è rappresentato da figure professionali di raccordo tra il servizio e la casa. La loro collocazione è, in un certo senso, di supporto nei confronti dell’équipe domiciliare propriamente detta. Essi sono:
  • psicologo;
  • assistente sociale.
Il malato diviene, quindi, il centro dell’attenzione di diversi specialisti che devono lavorare insieme in modo coordinato. Ciò richiede un interscambio d’informazioni precise e tempestive, nonché una collaborazione attiva e fattiva. Occuparsi di un malato terminale significa, senza dubbio, confrontarsi continuamente con i suoi bisogni. Infatti questi presenta, in contemporanea, una serie di problemi rilevanti: di tipo psicologico (perdita dell’identità che, a seconda della diverse condizioni fisiche e socio-economiche, si concretizza in differenti significati: perdita del ruolo professionale ed economico, perdita del ruolo nell’ambito familiare, declino delle capacità intellettuali); di tipo emotivo - percettivo, legati alla sofferenza e alle conseguenze emotive prodotte sia dalla malattia che dagli effetti collaterali delle terapie (la paura che il dolore possa divenire incontrollabile, la paura di morire, la paura di perdere l’autocontrollo mentale e/o fisico, la preoccupazione di perdere il proprio ruolo in famiglia e sentirsi di peso). Come si può notare, gli studi disponibili risalgono a quasi 20/30 anni or sono, purtroppo c’è da dire che le cose non sono cambiate di molto, visto che tuttora l’assistenza domiciliare del Sistema Pubblico è pressoché inesistente e lasciata all’improvvisazione, se non in sparuti casi dove Associazioni di volontariato, come l’ANT, cercano di porvi rimedio (l’Ospedale Domiciliare). Il dolore compare fino al 50% dei pazienti in trattamento antineoplastico, salendo al 70% nei pazienti con cancro avanzato (Bonica, 1985); tuttavia può comparire anche in fase precoce, è riportato infatti che il 15% dei pazienti con cancro non metastatico ha dolore (Twycross, 1982). Il controllo efficace del dolore, in particolare nei pazienti in fase terminale, è uno dei punti cardine del programma oncologico dell’OMS, accanto alla prevenzione primaria, alla diagnosi precoce e alla terapia (WHO, 1986). Tra i diversi modelli utilizzati per affrontare la problematica, pare interessante proprio il PROTOCOLLO O.M.S.
Esso prende in considerazione:
  1. la valutazione del dolore;
  2. il trattamento terapeutico;
  3. la cura continua o di accompagnamento.
Valutazione del dolore
  • approccio centrato sulle sensazioni soggettive del paziente;
  • confronto di reperti clinici e di laboratorio con quelli soggettivi del paziente sulla localizzazione, estensione e tipo di dolore;
  • individuazione di fattori diversi dal dolore (paura, rabbia, ansia, problemi familiari) che lo accompagnano o lo aggravano;
  • rilevazione di possibili indicatori di dolore quali la mimica facciale, sudorazione, postura di difesa, irrigidimento, irrequietezza, alterazione dei parametri vitali, alterazione del ciclo del sonno.
Trattamento del dolore
  • il principio della strategia terapeutica deve essere quello di portare ad un controllo continuo del dolore;
  • adeguare il trattamento alla singola persona nel rispetto della sua dignità;
  • applicare la scala analgesica a tre gradini indicata dall’O.M.S.;
  • conoscere e trattare gli effetti collaterali dei farmaci somministrati ed in particolare degli analgesici narcotici.
Cura continua o di accompagnamento
  • assicurare al paziente il controllo del dolore e degli altri sintomi significa che potrà contare su un’assistenza accurata e continua volta al miglioramento della sua qualità di vita.
Gli elementi per la valutazione iniziale del dolore sono:
  • l’anamnesi dettagliata (entità e caratteristiche del dolore);
  • l’esame fisico;
  • la valutazione psicosociale.
Il dolore deve essere valutato e documentato ad intervalli regolari dall’inizio del trattamento; a fronte di una nuova segnalazione del dolore; dopo un intervallo di tempo a seguito di ciascun intervento farmacologico, seguendo lo schema PQRST:
  1. P (precipitators - stimoli causali),
  2. Q (quality - tipo di dolore),
  3. R (region and radiation – regione e irradiazione),
  4. S (severity - gravità),
  5. T (time - frequenza e durata).
Un approccio clinico di routine alla valutazione ed alla terapia del dolore può essere fatto usando l’acronimo inglese ABCDE:
  1. A (ask - chiedere regolarmente informazioni sul dolore, valutandolo sistematicamente),
  2. B (believe - credere a quanto riferiscono il paziente e i suoi familiari sul dolore e a ciò che lo allevia),
  3. C (choose - scegliere le opzioni per il controllo del dolore adatte per ogni paziente, per ogni famiglia e per ogni ambiente),
  4. D (deliver interventions – intervenire in modo tempestivo, logico e coordinato),
  5. E (empower - dare potere decisionale ai pazienti ed ai loro familiari, mettendoli in grado di controllare il decorso della propria malattia quanto più possibile), attraverso, per esempio, la somministrazione di un questionario, come quelli riportati di seguito.
L’équipe che interviene in tale processo deve assicurare una comunicazione e una collaborazione efficace (chiarezza tra professionisti in merito a ciò che essi possono fornire: chi prescrive, chi coordina la terapia, etc.; capacità decisionale che rifletta l’input e le preferenze del paziente e della sua famiglia; riunioni interdisciplinari per migliorare la comunicazione e lo scambio di informazioni e per assicurare un programma). Inoltre, deve essere capace di affrontare gli ostacoli che si frappongono ad un’efficace terapia del dolore. Essi possono includere:
  1. Problemi legati agli operatori sanitari - conoscenze inadeguate alla terapia del dolore, scarsa valutazione dello stesso, preoccupazione circa la regolamentazione delle sostanze controllate, paura che il paziente diventi tossicodipendente, preoccupazione circa gli effetti collaterali degli analgesici e che i pazienti diventino tolleranti agli stessi.
  2. Problemi legati ai pazienti - riluttanza a riferire il dolore per timore di distrarre i medici dal trattamento della malattia di base, per timore che il dolore indichi un peggioramento della malattia, per la preoccupazione di essere considerato un paziente “scocciante”; ritrosia ad assumere analgesici per timore dell’assuefazione, per gli effetti collaterali intrattabili, per paura di diventare tolleranti agli stessi.


Vi poi altre scale di misurazione del dolore:
  1. V.A.S. (Visual Analogic Scale - scala analogico/visiva),
  2. N.R.S. (Numeric Rating Scale – scala di valutazione numerica),
  3. V.R.S. (Verbal Rating Scale – scala di valutazione verbale),
  4. Scala dei Grigi di Luerscher.

Vi sono ancora degli strumenti che valutano il dolore in maniera multidimensionale:
  1. Mc GILL Pain Questionnaire (MPQ) di Melzack - 1975. Strumento complesso, basato sull’uso di 78 descrittori del dolore che comprendono tre dimensioni (sensoriale, affettiva e valutativa) e venti classi, contenente ciascuna da due a sei aggettivi, in ordine crescente di attività. La somministrazione dello stesso è impegnativa. Melzack ha proposto una forma breve (SF-MPQ) contenente quindici aggettivi. In italiano esistono due versioni: Maiani-Savio e quella di De Benedittis (attualmente è considerato uno strumento di ricerca).
  2. Brief Pain Inventory.
  3. Memorial Pain Assesment Card.
La fase successiva alla valutazione del dolore è quella della scelta della terapia più idonea da adottare. Essa va dalla somministrazione dei comuni antidolorifici (FANS), a quella degli oppiacei e derivati; dalla erogazione della radioterapia palliativa (controllo locale dei sintomi senza o con minimi effetti collaterali) all’applicazione delle tecniche invasive quali la chirurgia palliativa; etc. Questo sistema di cure adeguato ai bisogni dei malati terminali, di sicuro non ha come obiettivo la guarigione ma, evita quell’insieme di ulteriori tormenti conosciuti come “accanimento terapeutico”.

Ancora molto c’è da fare per giungere alla piena realizzazione di un’ assistenza personalizzata e attenta al servizio dell’uomo... La palla passa alle Istituzioni che dovrebbero tradurre in atti concreti (nuove ed appropriate programmazioni sanitarie, leggi adeguate, strutture idonee, etc.) il diritto del malato a vivere in modo dignitoso il suo stato terminale.

BIBLIOGRAFIA

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Clark W.C., Ferrer-Brechner T. et al. The dimension of pain: a multidimensional scaling comparison of cancer patients and healthy volunteers. Pain 37:23-32. 1989.
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De Conno, C. Martini, E. Zecca “Fisiopatologia e terapia del dolore” Editore Masson 1996.
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Spinsanti S. Introduzione. Quando la medicina si fa materna. In Corli O. (ed.). Una medicina per chi muore. Il cammino delle cure palliative in Italia. Città Nuova. Roma. 1988.
Spitzer W.O., Dobson A.J. et al. Measuring the quality of life of cancer patients. A concise QL-Index for use by pshysicians. J. Chron. Dis. 34:585-597. 1981.
Twycross R.G., Fairfields S. Pain in far-advanced cancer. Pain 14:303-310. 1982.
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